E quindi uscimmo a riveder le stelle

Ore 5:00 del mattino.

Sono fuori dalla porta di casa con il naso all’insù. Il vento di ieri sera ha spazzato via le nubi piovose e regala uno splendido cielo stellato.

Il mio Survival mindset mi porta a guardare subito il Grande Carro, o Orsa Maggiore, seguirne la linea immaginaria che la collega alla Stella Polare e rassicurarmi di aver trovato il nord anche questa volta. Non che servisse, dato che mi trovo a casa, ma oramai l’abitudine è immediata nello svolgere questa operazione.

Mi sono fermato almeno 15 minuti a guardar le stelle. Lì, seduto sull’uscio di casa con il nasone all’insù. Sono affascinanti, sempre. Con alcune ho confidenza, altre ogni tanto le riscopro nuove,  altre le perdo di vista perché sono più difficili da vedere. Mentre le guardo, i pensieri, le fantasie, le riflessioni, galoppano nella mia mente.

Da quanto tempo non vi fermate a guardare le stelle?

Io non da molto, ma ricordo che l’ultima volta che ho guardato a lungo le stelle, tanto da vederne il movimento nelle ore, è stata questa estate, in un prato a Vicenza.

Quando ero un bociazza cancaroso e tornavo tardi la notte dalle serate con gli amici, ero solito sedermi sull’altalena nel giardino del retro di casa mia. Era il posto perfetto, molto buio, in mezzo alla campagna. Attendevo che l’ultima luce a fotocellula si spegnesse, dopo aver gentilmente illuminato il mio passaggio, per godere di una vista piena di brillanti puntini luminosi. Stavo lì, senza dondolarmi, a guardarle, a cercare di riconoscerle e memorizzarne le geometrie delle costellazioni, a crearne di nuove, a guardare il transito degli aerei tra di esse.

L’esperienza non si limitava a questo. Come nelle migliori lezioni di Zone In (di cui al tempo ancora ignoravo la teoria ma che mettevo in pratica inconsciamente) dopo qualche minuto, i sensi ricominciavano ad ambientarsi e risvegliarsi. Gli occhi scorgevano non solo le stelle e gli aerei, ma iniziavano a considerare le nuvole, a spaziare tra i rami degli alberi, tra i ciuffi d’erba del prato, tra le sagome delle case. Si vedevano cose prima invisibili, snobbate, di poca importanza certo, ma curiose e nuove, completamente diverse dal luminoso giorno. Era un innocente spiarle mentre dormivano. Il tatto si limitava a farsi carico di sopportare il freddo e l’umidità (spesso le serate più belle di questo tipo le godevo d’inverno, quando il cielo è molto più limpido). L’udito si affinava ed era forse il senso più divertito. Iniziavo ad escludere i rumori fastidiosi (auto o moto soprattutto) ed a focalizzarmi sui primi uccelli del mattino; li sentivo da varie distanze, cercavo di capire dove fossero e che uccelli fossero. Era un dolce cantare, quasi a ritmo, di un buongiorno che stava per arrivare. Più volte l’udito mi portava ad anticipare l’arrivo di un aereo, lontanissimo ed alto nel cielo, o viceversa, restava stupito dal non sentire nulla, mentre gli occhi vedevano dinanzi a loro un riccio muoversi tranquillamente nel prato.

Ricordo che, giunto il mio viso alla percentuale di umidità pari a quella dell’acqua, ed il mio sedere alla temperatura di una vaschetta di gelato, mi alzavo dall’altalena con il sorriso, soddisfatto e beato di questo momento, un momento tutto mio e solo mio, e mi dirigevo verso la porta di casa per tuffarmi poi nel caldo letto.

Era, ed è tutt’ora, un modo per alzare il piede dall’acceleratore. Per riprendere un attimo il contatto con la natura, con la propria natura. Dopo una serata di bagordi, od una giornata frenetica, come capita spesso, questa piccola magica pausa mi ridesta e mi porta serenità. E’ una sorta di meditazione, che ti lava via il peso dei pensieri negativi, e ti innalza quelli positivi.

Da quanto tempo non vi fermate a guardare le stelle?

Ivo

 

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